IL REPARTO DELL’OSPEDALE LE MOLINETTE DI TORINO, IL CUI PRIMARIO È MAURO SALIZZONI, È Al VERTICI MONDIALI PER QUANTO RIGUARDA IL NUMERO DEGLI INTERVENTI AL FEGATO, IL 19% DI QUELLI ITALIANI.
Tra le eccellenze della medicina italiana c’è il reparto di trapianti di fegato dell’ospedale Le Molinette di Torino. Che ha da poco raggiunto un traguardo record: quello dei 3 mila interventi in 27 anni di attività, cifra che lo pone ai vertici del mondo in quanto un simile risultato lo troviamo solo in alcuni centri inglesi e negli Stati Uniti. Primario del reparto è il professor Mauro Salizzoni, 70 anni portati benissimo, che incontriamo subito dopo un’operazione. Appeso al suo ufficio un calendario con gli interventi programmati. Ci sono settimane in cui ne ha eseguiti anche dieci.
«In verità ora siamo a 3.020», precisa il professore.
«In verità ora siamo a 3.020», precisa il professore.
E li ha fatti tutti lei?
«Sicuramente più della metà. Ma di ogni paziente che è passato di qui io conosco la storia. Oltre a me ci sono altri cinque chirurghi in grado di effettuare in autonomia questo tipo di intervento. Eseguiamo il 19% dei trapianti di fegato in Italia e il 150% dei pazienti viene da fuori regione».
«Sicuramente più della metà. Ma di ogni paziente che è passato di qui io conosco la storia. Oltre a me ci sono altri cinque chirurghi in grado di effettuare in autonomia questo tipo di intervento. Eseguiamo il 19% dei trapianti di fegato in Italia e il 150% dei pazienti viene da fuori regione».
Quanto può durare un intervento e di quante persone è composto lo staff in sala operatoria?
«Il tempo è variabile, da due o tre ore fino anche a 12-13, soprattutto nei bambini. In tutto in sala ci sono quattordici persone».
«Il tempo è variabile, da due o tre ore fino anche a 12-13, soprattutto nei bambini. In tutto in sala ci sono quattordici persone».
Come mai ha deciso di dedicarsi a questo tipo di chirurgia?
«Mi sono sempre piaciute le sfide. Quando ho iniziato a fare il chirurgo mi sono specializzato nella chirurgia dell’esofago, che si diceva fosse la più difficile. Poi ha cominciato ad affacciarsi la possibilità del trapianto di fegato, un intervento che era considerato ancora più arduo. E ho deciso di misurarmi proprio con questo. Io ho iniziato nel 1985, quando lavoravo a Bruxelles, e sono diventato primario a qui a Torino nel 1993».
«Mi sono sempre piaciute le sfide. Quando ho iniziato a fare il chirurgo mi sono specializzato nella chirurgia dell’esofago, che si diceva fosse la più difficile. Poi ha cominciato ad affacciarsi la possibilità del trapianto di fegato, un intervento che era considerato ancora più arduo. E ho deciso di misurarmi proprio con questo. Io ho iniziato nel 1985, quando lavoravo a Bruxelles, e sono diventato primario a qui a Torino nel 1993».
Dove ha imparato una tecnica allora agli albori?
«Il mio miglior addestramento nella chirurgia del fegato l’ho fatto ad Hanoi, in Vietnam. Dagli amici vietnamiti ho imparato a fare cose difficilissime con pochissime risorse. Loro avevano già intuito che il futuro sarebbe stato nel trapianto. E io li ho ricompensati per tutto quello che mi hanno insegnato formando un’èquipe di chirurghi vietnamiti, così da tre anni anche ad Hanoi si effettuano trapianti di fegato».
Quando i trapianti hanno cominciato a essere più sicuri?
«A partire dal 1990, l’anno in cui abbiamo iniziato anche qui a Torino, con l’introduzione di nuovi farmaci immunosoppressori che contenevano il rigetto. Altra svolta quando sono arrivati gli antivirali per l’epatite B e le immunoglobuline. Senza di essi, dopo il trapianto si verificavano delle recidive che rendevano tutto inutile».
«A partire dal 1990, l’anno in cui abbiamo iniziato anche qui a Torino, con l’introduzione di nuovi farmaci immunosoppressori che contenevano il rigetto. Altra svolta quando sono arrivati gli antivirali per l’epatite B e le immunoglobuline. Senza di essi, dopo il trapianto si verificavano delle recidive che rendevano tutto inutile».
Quali sono le cause per cui si rende necessario un trapianto al fegato?
«Per il 70% si tratta di cirrosi causate dall’epatite B e C, mentre le cirrosi alcoliche rappresentano una percentuale minima. Poi ci sono i tumori che insorgono in un fegato cirrotico, e ancora le malattie metaboliche. Nei bambini sono le atresie delle vie biliari».
«Per il 70% si tratta di cirrosi causate dall’epatite B e C, mentre le cirrosi alcoliche rappresentano una percentuale minima. Poi ci sono i tumori che insorgono in un fegato cirrotico, e ancora le malattie metaboliche. Nei bambini sono le atresie delle vie biliari».
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A fianco: Niccolò e Anita, due anni, dopo il trapianto di fegato passeggiano mano nella mano nei corridoi del reparto.
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Si fanno spesso trapianti anche nei bambini?
«Certo, in questo momento in reparto c’è Anita, una bambina di due anni di Savigliano, che dodici giorni dopo l’intervento, pur essendo ancora attaccata al drenaggio, è vispa e allegra. Tra qualche giorno potrà tornare a casa, come è avvenuto per un altro piccolo di due anni, Niccolò, che è stato dimesso da poco».
«Certo, in questo momento in reparto c’è Anita, una bambina di due anni di Savigliano, che dodici giorni dopo l’intervento, pur essendo ancora attaccata al drenaggio, è vispa e allegra. Tra qualche giorno potrà tornare a casa, come è avvenuto per un altro piccolo di due anni, Niccolò, che è stato dimesso da poco».
Fino a che età si può subire un trapianto?
«Poiché non è facilissimo reperire gli organi, diamo la priorità a chi ha una maggiore aspettativa di vita. Direi fino ai 65-67 anni. Però abbiamo scoperto che possiamo utilizzare gli organi di persone molto anziane, anche di 85 anni. In alcuni pazienti, quindi, sono presenti fegati centenari. Una prospettiva davvero molto interessante per la medicina».
«Poiché non è facilissimo reperire gli organi, diamo la priorità a chi ha una maggiore aspettativa di vita. Direi fino ai 65-67 anni. Però abbiamo scoperto che possiamo utilizzare gli organi di persone molto anziane, anche di 85 anni. In alcuni pazienti, quindi, sono presenti fegati centenari. Una prospettiva davvero molto interessante per la medicina».
Qual è la percentuale di sopravvivenza?
«Molto alta. A dieci anni dal trapianto la sopravvivenza è vicina all’8o per cento».
«Molto alta. A dieci anni dal trapianto la sopravvivenza è vicina all’8o per cento».
Come si svolge la complessa procedura che c’è dietro a ogni trapianto?
«Noi siamo collegati a una rete europea in cui inseriamo tutti i pazienti in lista di attesa con le loro caratteristiche. Quando si rende disponibile un organo compatibile veniamo contattati e con un nostro staff ci rechiamo direttamente sul posto. Di recente siamo andati a effettuare un espianto in Lituania e in Grecia. Il tutto deve avvenire molto celermente. Un organo deve essere trapiantato 10-11 ore al massimo dopo l’espianto».
«Noi siamo collegati a una rete europea in cui inseriamo tutti i pazienti in lista di attesa con le loro caratteristiche. Quando si rende disponibile un organo compatibile veniamo contattati e con un nostro staff ci rechiamo direttamente sul posto. Di recente siamo andati a effettuare un espianto in Lituania e in Grecia. Il tutto deve avvenire molto celermente. Un organo deve essere trapiantato 10-11 ore al massimo dopo l’espianto».
Come ci si può rendere disponibile alla donazione?
«Si può lasciare una vera e propria dichiarazione autografa al proposito, oppure inserire di essere un donatore nella carta d’identità. O ancora, iscriversi all’Aido».
«Si può lasciare una vera e propria dichiarazione autografa al proposito, oppure inserire di essere un donatore nella carta d’identità. O ancora, iscriversi all’Aido».
In questo momento quanti sono i pazienti in lista d’attesa qui alle Molinette?
«Sono 90, che rischiano di morire nell’arco di pochi mesi se non verrà effettuato il trapianto. Nell’attesa viene fatta loro una terapia compensativa e i più gravi di loro sono ricoverati».
«Sono 90, che rischiano di morire nell’arco di pochi mesi se non verrà effettuato il trapianto. Nell’attesa viene fatta loro una terapia compensativa e i più gravi di loro sono ricoverati».
In un trapianto, alla gioia di unavita salvata corrisponde il dolore per una vita andata perduta. Come vive lei questa dimensione?
«Io tengo sempre per il donatore, nel senso che tratto delicatamente questo organo cercando di assicurargli un buon fine per ricompensare questo atto estremo di generosità».
«Io tengo sempre per il donatore, nel senso che tratto delicatamente questo organo cercando di assicurargli un buon fine per ricompensare questo atto estremo di generosità».
Che bilancio fa di tutti questi anni di attività? «Ho deciso di fare un bilancio ufficiale scrivendo un libro che uscirà per il prossimo Salone del libro. Il titolo sarà 3.000 trapianti e 40 Mombarone. La mia vita in parallelo tra l’attività di chirurgo e la mia passione per la corsa. Da quarant’anni partecipo alla competizione di montagna Ivrea-Mombarone che si svolge a settembre e sale fino a quota 2.371 metri. Ho fatto anche la maratona con buoni tempi. Nella mia vita un ruolo importante lo ha avuto anche l’impegno politico: sono stato tra i fondatori di Rifondazione comunista. Un ideale che reputo valido ancora oggi».
Mantiene un rapporto con i suoi pazienti?
«Con la maggior parte di loro resta un legame profondo, viscerale; si instaura tra paziente e chirurgo una forte empatia. Capita che riveda pazienti trapiantati da trent’anni. C’è il napoletano che viene a trovarmi con le mozzarelle, il pugliese con la bottiglia d’olio». E mentre ci alziamo per salutare il professore, che deve tornare in sala operatoria, fa capolino nell’ufficio proprio uno di questi pazienti, operato qualche mese fa. È visibilmente commosso e si abbandona a un abbraccio caloroso con il suo dottore, a cui non smette di dire grazie mentre gli porge una busta con l’immancabile omaggio.
– 12 novembre 2017 – Articolo di Fulvia Degl’Innocenti