29 ottobre 2020
DALLA LOMBARDIA E DA ROMA, HANNO RAGGIUNTO IN SICILIA IL PROFESSOR JEAN DE VILLE DE GOYET CHE TRAPIANTA AI BAMBINI UN PEZZO DELL’ORGANO DEL GENITORE. FINORA 40 INTERVENTI, TUTTI A LIETO FINE.
di Gino Gullace Raugei
La luce in fondo al tunnel è il sorriso rassicurante del professor Jean de Ville de Goyet. Il luminare belga è il direttore del dipartimento di pediatria e dei trapianti addominali di Ismett, l’Istituto mediterraneo per i trapianti e terapie ad alta specializzazione di Palermo, un ospedale di eccellenza assoluta a livello mondiale, ed è specializzato in una missione che fino a qualche anno fa era quasi impossibile: salvare tutti i neonati affetti dalla micidiale atresia delle vie biliari, una malattia mortale che distrugge rapidamente il fegato.
Negli ultimi 40 mesi, il professor de Ville ha eseguito 40 trapianti con una percentuale di successo del 100 per cento: tutti i piccoli pazienti stanno benone. E stanno benone anche i donatori. Sì, perché la cura rivoluzionaria messa a punto da de Ville si basa sul cosiddetto “trapianto da vivente”: è, di solito, uno dei genitori che dona un pezzo del suo fegato che va a sostituire quello, irrimediabilmente compromesso, del bambino.
Quali sono i vantaggi? «Enormi», ci spiega il professore. «Nell’attesa di un organo espiantato da un donatore deceduto, le condizioni del piccolo paziente possono peggiorare sensibilmente; il più delle volte si è costretti a operare d’urgenza e il fegato disponibile può non essere della migliore qualità. Se invece la mamma o il papà donano un pezzetto del loro fegato, tutte le fasi della preparazione e dell’intervento sono programmati nel minimo dettaglio». E c’è una certa differenza: le statistiche mondiali rivelano che nei migliori centri di trapianti pediatrici da donatore deceduto, il tasso di mortalità dei piccoli pazienti è intorno a 10 per cento; all’Ismett di Palermo, lo 0 per cento. Per le famiglie che si trovano ad affrontare una simile esperienza è un viaggio di andata e ritorno dall’inferno al paradiso.
UN’ODISSEA A LIETO FINE
«È esattamente così», ci dice la mamma donatrice Velia Campagnani, 29 anni. «Alessio, il mio secondogenito, è nato bello e sano all’ospedale di Varese. Quando siamo ritornati a casa, dopo qualche settimana, ha cominciato a vomitare spesso e a piangere in continuazione. A un mese, l’abbiamo portato al Pronto soccorso per un’ecografia allo stomaco. Lo hanno dimesso con una diagnosi di reflusso, nulla di preoccupante. Però il bambino non migliorava e ha cominciato ad assumere un colore giallastro. So che i neonati hanno l’ittero, che in genere si risolve in 15-20 giorni, ma a lui perdurava oltre il tempo fisiologico.
Era l’inizio dell’estate del 2019 e avevamo affittato una casetta al mare per trascorrervi qualche giorno di vacanza; comunque ho telefonato alla pediatra che mi tranquillizzò: «Non è nulla di serio», disse, «andate al mare tranquilli che, al limite, vedrò il bambino al vostro ritorno». Alessio continuava a peggiorare. Quando la dottoressa l’ha visitato, si è accorta che aveva il fegato ingrossato. Lo abbiamo ricoverato per accertamenti all’ospedale dí Cittiglio ed è cominciata l’odissea. Da lì, l’hanno trasferito prima a Brescia e poi a Bergamo.
Il 1° luglio ci hanno infine sparato in faccia la prima mazzata: il bambino aveva l’atresia delle vie biliari e bisognava operarlo con la massima urgenza. Il 4 luglio gli hanno fatto l’intervento di Kasai, dal nome del chirurgo giapponese che l’ha inventato, per ripristinare il flusso biliare dal fegato all’intestino, ma non ha prodotto i risultati sperati: Alessio stava sempre peggio. E lì ci hanno sparato la seconda terribile mazzata: per salvarlo, l’unica chance era un trapianto di fegato. Ci siamo messi in lista, avvolti da una cappa di cupa disperazione. Per caso ho conosciuto una signora che, 24 anni fa, si era recata in Belgio, dal professor Jean de Ville de Goyet, per donare un pezzetto di fegato a suo figlio che era poi perfettamente guarito.
«Così, ci siamo ritrovati a partire per Palermo. Confesso che in famiglia ci prendevano per matti: ma come, dal sud vengono al nord per curarsi nei nostri ospedali d’eccellenza e voi andate in Sicilia! Guardi, l’Ismett è un posto veramente straordinario. Non solo hanno tutti una competenza da primi posti a livello mondiale, ma anche una gentilezza e una disponibilità davvero commovente. Non dimenticherò mai quell’infermiera che, per consolarmi, veniva di notte, portandomi la cioccolata».
«E il professor de Ville è un uomo davvero speciale, il nostro super eroe. Dopo il trapianto, eravamo entrambi, io e Alessio, in terapia intensiva. L’ansia e l’angoscia mi divoravano. È arrivato il professore col suo meraviglioso sorriso e mi ha mostrato una foto che aveva scattato col suo cellulare di Alessio, tranquillo nel suo lettino.
Oggi mio figlio cresce, corre, parla. Sembra un sogno ed è tutto vero».
LA PARTITA DELLA VITA
«Per me il professore de Ville è molto di più di un super eroe: è come un dio che ha salvato la mia prima e unica figlia che già davamo per persa», ci dice Salvatore Orefice, 33 anni, papà donatore di Sofia.
L’odissea della loro famiglia, che si svolge a Roma, è identica a quella dei De Girolamo in Lombardia: la bambina che nasce vispa e sana e comincia a manifestare, dopo alcune settimane, dei problemi. «Nel nostro caso, feci incolori», racconta Salvatore.
«Anche noi siamo passati attraverso diagnosi rassicuranti che però non mi tranquillizzavano affatto, visto che Sofia non migliorava. Proprio la mia ostinazione nel volerci veder chiaro, ci ha portato infine all’Ospedale Bambin Gesù dove è emersa la drammatica verità. Anche Sofia ha subito l’intervento Kasai che non è riuscito; anche lei è finita in lista d’attesa per il trapianto.
Ho passato le notti su internet a leggere tutto quello che potevo su quella maledetta malattia e infine, un giorno, mi sono imbattuto su un gruppo Facebook di genitori che parlavano del professor de Ville. Alle ore 16, gli inviai una mail; alle 16 e 30 mi rispose, mostrando tutta la sua spettacolare umanità. Siamo partiti in macchina per Palermo contro il parere di familiari e medici che ci davano degli incoscienti. È stata la partita più importante della mia vita ed ho affidato il rigore decisivo a Jean de Ville che non ha sbagliato».
Gino Gullace Raugel